Gusmaroli, Pezzi, Rapetti Mogol a cura di Vittorio Viola, mostra a Palazzo Lombardia, Milano

Mostre Milano

Mostre Milano – Gusmaroli, Pezzi, Rapetti Mogol a cura di Vittorio Viola

Mostre Milano 2015 – Gusmaroli, Pezzi, Rapetti Mogol a cura di Vittorio Viola, Palazzo Lombardia, via Galvani 27. Inaugurazione di Percorsi: giovedì 5 febbraio 2015, ore 18:30. Testo critico Gianluca Ranzi. Il catalogo della mostra di VIOLA edizioni d’arte, con una selezione di opere di Riccardo Gusmaroli, Paola Pezzi e Alfredo Rapetti Mogol sarà disponibile nel finissage del 5 marzo 2015. >

Movimento in tre atti, con qualche ironia.

Gianluca Ranzi

Londra, 17 giugno 1827. Robert Brown, un botanico scozzese di cinquantaquattro anni interessato alla riproduzione delle piante e ai meccanismi dell’impollinazione, si è alzato da poco, ha consumato una veloce colazione a base di porridge e come sempre inizia la giornata nel suo studio apprestandosi a guardare dentro al microscopio. Quella mattina sotto la lente non c’è nulla di particolare, solo una goccia d’acqua e alcuni granuli di polline di Clarkia Pulchella, ma Brown non può immaginare che nei tre mesi successivi le sue scoperte avrebbero rivoluzionato tutto ciò che oggi sappiamo sulla materia e sulla vita. La sorpresa per ciò che vide fu sconvolgente; invece di particelle immobili in sospensione, osservò che esse si muovevano in ogni direzione, avanti e indietro come in balia di un ciclone. Ma era solo l’inizio.

La danza inconsulta delle particelle si ripeteva anche in presenza di soluzioni di materie inorganiche, tanto che un amico compiacente del British Museum gli procurò persino un pezzetto di pietra proveniente dalla Sfinge (allora la sensibilità per i beni culturali era assai meno feticista di oggi). I granuli egizi, la polvere del tappeto, il carbone della stufa, la cenere del sigaro, ogni cosa danzava e vibrava sul vetrino, purché fosse abbastanza piccola ma non piccolissima, condizione necessaria e imprescindibile. Robert Brown, con le sue osservazioni sui fenomeni della scala mesoscopica (quella cioè che sta tra il bosone di Higgs e il mondo macroscopico degli esseri umani o delle galassie), dove niente sta fermo e i suoi abitanti sono naturalmente irrequieti, apriva una breccia sul cuore irrequieto della materia e della vita e lasciava capire che quello che succede agli oggetti di quella grandezza riguarda tutti noi: determina ciò che siamo nel mondo e il modo in cui funzioniamo. Da allora il piccolo mondo di mezzo è stato al centro delle fondamentali scoperte di Albert Einstein, di James Clerk Maxwell, di Ludwig Boltzmann, di Paul Langevin, di Leon Gouy, di Jean Perrin e di decine d’altri: il DNA, le proteine, i motori molecolari, l’impalcatura di trasporto della tubulina, gli enzimi e le membrane abitano tutti quel luogo tanto piccolo ma non piccolissimo. Il movimento continuo del mondo di mezzo permetteva così alla scienza di sfumare il divario tra materia e vita e tra fisica e biologia, per cui oggi la super-congettura è la seguente: e se fosse proprio il moto browniano del mondo di mezzo a causare la vita?

Milano, 5 febbraio 2015. Mi piace pensare che anche le opere di Riccardo Gusmaroli, di Paola Pezzi e di Alfredo Rapetti Mogol escano dal microscopio di Brown per mostrare quanto l’arte stessa riesca a dotarsi di movimento per parlare una lingua vicina al segreto delle fonti della vita. E´ un movimento che ovviamente assume per ciascuno di loro caratteristiche diverse, agisce con tempi differenti e determina risultati specifici, ma che li accomuna in una concezione fortemente dinamica, pulsante e persino musicale dell’opera.

In fin dei conti, come sostiene Mario Trevi, mentre quando lo scienziato parla della natura spiega per poter comprendere, il poeta comprende per poter eventualmente spiegare. Il poeta e l’artista possiedono questa capacità prodigiosa di comprendere, di penetrare oltre la barriera del superficiale per riconnettersi all’energia di fondo che anima il tutto e lo fa danzare, avvicinandosi alla ragione del manifestarsi del ciclo continuo della nascita e della morte. Per i nostri tre artisti questo significa dar forma a un mondo di visioni sotterranee e di maree (Gusmaroli), di movimento tensivo e incessante (Pezzi), di fraseggi delicati e rapidissimi (Rapetti Mogol). Sono opere in cui la superficie si anima, si intreccia, si increspa, si buca, si fa serpentinata e ondulata, palpita di cromie, di rialzi e abbassamenti di tono, di sussulti zampillanti ed irrequieti, di ritmi sincopati, di addensamenti ritmici e di rallentamenti che si risolvono talvolta nell’indefinito e nel silenzio.

Gusmaroli Pezzi Rapetti MogolIl lavoro di Paola Pezzi trascorre senza soluzione di continuità attraverso media differenti, in una visione allargata e metamorfosata della pittura che non solo si estende nello spazio anche sotto forma di installazioni, ma che ingloba lo spazio stesso dentro di se e dentro il suo inarrestabile dinamismo vitale.

In opere come Campo di forze (2014) la gomma espansa non solo si arrotola su se stessa ma protrude verso l’esterno, si allunga nello spazio fino a intercettare lo sguardo dello spettatore, lo attira all’interno del suo gioco di spirali e di vortici rendendolo partecipe del campo di forze generato dalla materia e dal suo incessante divenire. Spettatore è quindi chi davanti a queste opere entra in sintonia con la loro spettacolarizzazione di forme e di eventi. Fluido (2014) e Orbitale (2015) sono infatti eventi a tutti gli effetti perché non semplicemente agiscono sullo spazio ma anche sul tempo, quello interno all’opera che ha a che fare con la sua metafora liquida e dinamica e quello esterno ad essa che riguarda il suo interagire col pubblico e con lo spazio architettonico.

Ecco così un’opera che mette in scena la rappresentazione di un campo energetico che di volta in volta si esprime in una grammatica multiforme di fenomeni – eventi – particolari (punti, cerchi, filamenti, strisce, serpentine, spirali, ellissi) per organizzare una sintassi che scava nei meandri della materia e negli anfratti del cosmo. In questo caso il colore monocromo è funzionale a una ricerca espressiva tesa e a suo modo minimale, che non cede al decorativo e all’effetto momentaneo, ma crea uno spazio di risonanza abitato dalle emanazioni delle forze in campo e “vibrato” dall’instaurarsi delle loro relazioni. Per Paola Pezzi less is more perché il suo linguaggio mantiene comunque una asciuttezza d’insieme che si rivela come condizione paradossale di una ricchezza formale talvolta barocca dove il vuoto è la condizione del pieno e il pieno quella del vuoto, una ricchezza tanto sofisticata quanto rarefatta che testimonia della metamorfosi continua di forme e di stati naturali, laddove anche l’uso di un materiale come la gomma espansa diviene simbolo della mutazione degli elementi inseriti nel divenire naturale che permea la vita delle cose.

E’ così che un rocchetto di passamaneria blu, sul filo di un’ironia anch’essa sottile e sopra le righe ma costante nel lavoro dell’artista, diviene metafora di uno spazio “oltre” che si apre all’universo più profondo organizzandosi in famiglie di gorghi interstellari, il feltro bianco assume la forma della spirale e richiama alla rigenerazione continua delle cose, le matite rosse sono accostate come formazioni di cristalli che sembrano aggregarsi in strutture via via sempre più complesse, i cerchi concentrici della gomma espansa nera si espandono all’esterno smarginando lo spazio dell’opera come a voler fisicamente indurre l’idea della soglia da attraversare, dello scambio continuo tra il germogliare e l’avvizzire, del passaggio di stato da una condizione all’altra, della circolarità tra organico e inorganico.

La semplicità del mondo si esprime anche attraverso l’irregolarità, l’asimmetria e lo spirito del vago, che sono componenti ricorrenti del lavoro di Paola Pezzi. Anziché perdersi nella complessità del dettaglio minuzioso e irrilevante, l’artista mira all’economia del tutto e alla pienezza della forma. La semplicità rinvia a una purezza dello sguardo poiché anche l’universo è semplice, pur nella sua complessità. La semplicità dello sguardo dell’artista è così capace di cogliere la complessità del reale che da sempre si nasconde dietro la banalità del caso, poiché come ha scritto Henri Poincarè in La Scienza e l’Ipotesi, se “da un lato la semplicità si nasconde sotto apparenze complesse, dall’altro, al contrario, è la semplicità a dissimulare realtà estremamente complesse”.

Riccardo GusmaroliRiccardo Gusmaroli condivide questa forma aperta e dinamica dell’opera ma parte da presupposti completamente diversi. La sua pratica artistica ingloba materiali e oggetti preesistenti configurando l’opera come un campo aperto di slittamento e ibridazione di segnali o immagini predefiniti provenienti dal mondo. Sono piccoli oggetti ritrovati per caso, carte geografiche, metri lineari di plastica, francobolli, carta da musica, santini, dadi da gioco e minuscole barchette di carta che vengono riplasmati, riorganizzati e riaggregati in nuovi insiemi significanti. E’ una pratica che pone la questione del riferimento all’esempio di Marcel Duchamp, eppure qui la ripresa di oggetti trovati è solo fino a un certo punto ironico-concettuale in quanto Gusmaroli sottopone gli oggetti di base a un complesso quanto raffinato processo di rielaborazione tecnica (intrecci, buchi, piegature, trafori a merletto, origami) il cui risultato finale riunisce piacere retinico, e spesso anche tattile, memoria profonda e forza immaginativa.

La produzione dell’artista, caratterizzata da una sperimentazione continua e da una parabola amplissima di materiali d’uso, assomma emblemi, immagini e stilemi che vengono puntualmente ridefiniti e ricollocati in un altro orizzonte di senso, percorso da una vocazione lirica che sembra anche superare la vis ironica pur sempre presente. In questo modo le opere si distanziano sia dal freddo rigore concettuale di Duchamp che dalla letteralità oggettuale del prelievo pop e, mostrando semmai una familiarità più stretta con il Nouveau Réalisme di Pierre Restany, esse si fanno ora rievocative e nostalgiche, ora sospese e trasognate, ora ritmiche e ironiche. Questa forma aperta e pulsante dell’opera è accentuata anche qui da un uso spesso monocromatico del colore, quasi per catturare e meglio sottolineare i flussi e le “linee andamentali”, come le chiamava Giacomo Balla, di un’energia omnidiffusa, cosmica e al tempo stesso esistenziale.

Le composizioni di Gusmaroli in questo modo racchiudono l’accidente (gli oggetti e le cose del mondo “di fuori”) in una sintassi che si sposta sul piano più alto del mistero del vivere e che evoca la meraviglia dell’esistenza intesa come sorpresa, come piacere poetico legato al frammento e al piccolo dettaglio rivelatore. Questo, soprattutto nelle composizioni di grande formato animate in superficie da centinaia di barchette in migrazione, favorisce il dialogo tra finito e non-finito (in-finito) e realizza una mobilità mediata dell’opera che anch’essa ripresenta con forza il riferimento al moto browniano: un tremolio della superficie pittorica o assemblata che rivela l’eclissarsi e il riemergere delle forme dall’indistinto del fondo, immerse in quello spazio risonante che tutte le abbraccia e le connette. L’uso delle carte geografiche del resto predispone a una metafora del viaggio attraverso mondiinvasi di presenze minute e pullulanti che fluttuano, aggregandosi e disfacendosi, sopra lo spazio depurato e rigoroso degli sfondi monocromi. Qui si muovono vortici di note, spirali di pastiglie, scacchiere di origami, uova traforate come un merletto, gocce di cristalli multicolori, secondo una frequenza ritmica che non è mai uguale di quadro in quadro.

In questo modo lo spazio “viaggiato” di Gusmaroli mette in scena un mondo sfaccettato e in fermento le cui cellule minime, soggette a gravitazioni irregolari e a maree ondivaghe sono impegnate in una danza sinuosa di forme, di segni e di pulsante natura. Il suo è uno spazio compreso, energetico e vibrante che rimane concentrato in se stesso, pronto a cogliere un’intuizione spaziale che corrisponde alla percezione dell’essenza del dinamismo del mondo, suggerito da modulazioni a volte regolari come una griglia, altre volte più asimmetriche e diradate.

Per Alfredo Rapetti Mogol l’arte è prima di tutto pensiero, un bildnerisches Denken che come ha scritto Paul Klee “non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è”. Anche qui infatti, nelle sue composizioni pittoriche dove una lingua universale affiora in superficie come finalmente liberata e rimessa in circolo, emerge con forza un’idea del pensiero che va interrogato e indagato fino ed oltre il limite del visibile. E’ quanto fa Rapetti Mogol nella sua opera, sintonizzandosi su frequenze vitali inudibili ai più, registrando il palpito del movimento elementare di una scrittura primordiale e fondanteche ci fluttua nebulosamente intorno e che sarebbe difficile da cogliere, come un sommesso rumore di fondo a cui non si fa più caso, se non fosse per i frammenti che l’artista riporta e galla e ci restituisce. Il suo lavoro coglie così l’energia primaria e l’essenza di un linguaggio che non tanto rappresenta ma è, che incide la superficie e diviene materia stessa, stadio preverbale riportato sulla tela, sul legno o sul cemento con immediatezza assoluta, quasi automatica.

Da alcuni anni l’evoluzione del linguaggio espressivo dell’artista lo ha portato a rintracciare la presenza di un monema di base d’una lingua originaria che oggi trapassa dalla pittura alla scultura, dall’installazione alla traccia sonora e dalla fotografia all’ibrido verbale riportato su carta e su marmo, mettendo il soggetto in rapporto con un corale e anonimo vissuto del mondo. E’ una ricerca che da questo punto di vista si è estesa a macchia d’olio non solo attraverso la conquista della multimedialità e della multidisciplinarietà, ma che Alfredo Rapetti Mogol ha saputo portare avanti con un nomadismo culturale di metodo, e mai di maniera, che è passato attraverso i canti sanscriti e la tradizione culturale Vedica, lo sciamanesimo e il wabi-sabi giapponese, il racconto evangelico e la poesia visiva. Tutto questo ampliarsi d’orizzonti trova il suo parallelo in opere che evocano il cielo mentre parlano della terra o viceversa, che raccolgono le lacrime del mondo in acquasantiere arrugginite, che sono insieme steli funerarie e inni alla vita, che posseggono al contempo la liquidità dell’infinito e la fermezza dell’invocazione.

Alfredo Rapetti Mogol offre in questo modo la testimonianza molteplice e multiforme di un´espansione del soggetto oltre i limiti umanistici e romantici, ma anche al di là dei nuovi limiti del soggetto profondo e pluri-livellato della psicoanalisi. Questa espansione del soggetto che non cerca nuove forme di comunicazione ma chiede innanzi tutto d’essere, sembra porre al giorno d’oggi anche una sfida di fronte alla profonda crisi di identità storica che ha colpito non più solo l’individuo o una classe sociale, ma che ha coinvolto e contrapposto blocchi religiosi ed etnici. In questo caso il lavoro sulla scrittura e sul valore della lingua di Alfredo Rapetti Mogol funge da correttivo: nell’ultimo lavoro qui presentato un’operazione di montaggio e smontaggio scardina il senso dalle parole e l’asseverativo del testo (così come la fissità di una sua corrispondenza a un’immagine) si apre a un felice dubbio cognitivo, fino a generare una nuova geografia di significati che contamina non solo la parola, ma anche la sua rappresentazione e la cosa rappresentata. Si avvia così un processo percettivo che induce lo spettatore a relativizzare le certezze e a riaprire la partita interpretativa.

Contro ogni dogmatismo cieco l’artista ricorda che la verità non è mai scritta in modo definitivo, lascia aperti tutti i margini di possibilità e soprattutto fa gradualmente ma inesorabilmente scivolare discorsi – e azioni – verso un nonsense che finisce con il disinnescare gli atti linguistici comuni, creando una tensione tra le parole e le cose, anch’essa non esente da una certa ironia. In questo caso l’ironia sta nel rifiutare l’inerzia per il movimento e lo slittamento del senso; sono essi che oliano gli ingranaggi arrugginiti dei vocabolari, infrangono i paesaggi mentali cristallizzati, detestano il monologo del fondamentalista e ricercano il pluralismo del dialogo. Rapetti Mogol sa bene che senza questo lavoro di smontaggio e rimontaggio del linguaggio le parole smetterebbero di suggerire idee, o lo farebbero solo in piccola parte. Mostrare l’involucro o il guscio delle parole qui significa arrivare all’essenza di un nucleo più puro da cui ripartire per mettere in moto il linguaggio stesso. Contro il modello linguistico classico che da Ferdinand de Saussure arriva fino a un filosofo del linguaggio come Peter Thomas Geach, le operazioni sul linguaggio e sul pensiero di Alfredo Rapetti Mogol vanno in direzione inversa, lasciando pensare che nel rapporto tra verbale e mentale sia la mente a reggersi sul linguaggio e non viceversa, tanto che non vi è differenza sostanziale tra la parola e la musica. Ecco quindi l’idea di un’ironia propria della parola e della musica che è innanzitutto magica. Con limitate risorse, qualche alterazione timbrica o qualche nota, richiama quel che non c’è e lo fa essere, rendendolo presente. E’ un’idea del linguaggio che esplora e sovverte, un linguaggio che racconta storie sempre diverse e non si ingessa mai nel conformismo.

MAE Milano Arte Expo 2015 –mail:milanoartexpo@gmail.com– ringrazia l’ufficio stampa di Viol@rte per le informazioni e le immagini – nonché per aver messo a disposizione il testo di Gianluca Ranzi – sulla mostra Percorsi di Riccardo Gusmaroli, Paola Pezzi e Alfredo Rapetti Mogol curata da Vittorio Viola a Palazzo Lombardia di Milano.

Milano Arte Expo